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Ristori-fantasma: 539 i decreti solo promessi da Conte

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Finalmente indennizzi veri, dopo la farsa recitata per un anno da Giuseppe Conte: è questo il principale “miracolo” che, secondo Sergio Luciano, è lecito attendersi da Mario Draghi. Il neo-premier non ha «muscoli politici» per chissà quale riforma, da attuare «nel breve volgere degli undici mesi che lo dividono dalla scadenza delle elezioni presidenziali o, al più tardi, nei ventiquattro mesi che mancano al termine naturale della legislatura». Semmai, l’ex presidente della Bce «non è solito sparare colpi a salve». E’ un personaggio che, «se agisce, lo fa sapendo di poter vincere». Potrebbe quindi riuscire a «rasentare il potere taumaturgico manifestato con il celeberrimo “whatever it takes”, che salvò l’Italia con tutto l’euro» intervenendo soprattutto sul fronte socio-economico, cioè «sulla pratica bollente dei ristori inefficienti (o peggio, millantati) lasciati dal governo Conte-2, come una bomba a orologeria nell’ufficio, giusto sotto la poltrona da premier».

Per la precisione: il decreto 176 del 18 dicembre 2020, il cosiddetto “decreto ristori”, per funzionare prevedeva l’emanazione di 21 decreti attuativi. Quanti ne sono stati emessi? Appena 7. Quindi, ne mancano 14. «Il che evidentemente rende quantomeno zoppo, se non vano, Draghil’intero articolato». Ma questo è niente, scrive Luciano sul “Sussidiario“. Secondo un’opportuna riclassificazione dei dati ufficiali del governo fatta da “La Stampa”, la bomba a orologeria che il Conte-bis ha lasciato a Draghi sotto la scrivania è di ben 539 decreti attuativi, sui 792 previsti dall’intera batteria dei Dpcm con cui ha cercato di governare “l’avvocato del popolo”. «Chiaro? Significa che gli uffici sono stati in grado di emanare poco più di un quarto dei decreti attuativi che sarebbero stati necessari». Ora, aggiunge Luciano, il semi-miracolo laico che gli italiani hanno ragione di attendersi da Draghi è questo: «Prosciugare l’infame arretrato di questi decreti e attuativi. E comunque, con o senza decreti, far arrivare i soldi alle vittime economiche della pandemia».

Indennizzi da far pervenire non solo ai cassintegrati, che sia pure con ritardi notevoli, soprattutto iniziali, l’Inps è riuscito più o meno a pagare. In ballo ci sono «anche e soprattutto gli autonomi, lavoratori singoli e imprenditori, che hanno perso mesi e mesi di fatturato (e ancora ne stanno perdendo) ma non hanno per questo potuto estinguere tutti i costi e sono restati senza reddito». Non confondiamo i livelli, raccomanda Luciano: la riforma della burocrazia richiestaci dall’Europa («e affidata da Draghi, quasi provocatoriamente, all’ottimo Brunetta»), di fatto «non si farà mai», finché non interverrà «qualche causa esterna dal potere devastante, vedi alla voce “Grecia”». Non dimentichiamoci, aggiunge l’analista, che il nostro «è un paese che ha digerito senza scomporsi l’ignominia della non-licenziabilità individuale degli statali quando il Jobs Act di Renzi ha fatto saltare il tabù dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che dava la stessa garanzia ai dipendenti privati».

Non è giusto, né costituzionale, il fatto che siano state create «due categorie di lavoratori così diverse, rispetto a un diritto così sacro come quello del lavoro». Eppure «lo abbiamo accettato senza batter ciglio». Questo, continua Luciano, è un paese dove il neoministro della funzione pubblica, che aveva già ricoperto lo stesso incarico nell’ultimo governo Berlusconi, «ha dovuto subire attacchi e offese di ogni tipo per aver in quelle vesti tentato di introdurre nella pubblica amministrazione prassi del tutto ordinarie, nel mondo privato». Luciano ricorda Brunettainfatti che Brunetta aveva proposto i famosi tornelli all’ingresso, osando anche «stringere i bulloni sulle assenze per malattia», “scoprendo” il lassismo «che impera quasi ovunque, in Italia», dove «due giorni di malattia molti medici di base non li negano a nessuno». Aggiunge l’analista: «Per una riforma della pubblica amministrazione efficace – che dovrebbe essere metaforicamente sanguinosa – si dovrebbero avere le spalle larghe abbastanza da sostenere le proteste lobbistiche e di piazza di tre milioni di ipergarantiti».

Per non parlare della riforma della giustizia civile, «zavorrata da tre milioni e mezzo di cause arretrate e dall’indifferenza della casta che dovrebbe smaltirle, la magistratura», che Luciano definisce «impunita e impunibile quando sbaglia per dolo, comunque intoccabile negli automatismi di carriera quando sbaglia per incompetenza o inadeguatezza professionale», in ogni caso «intoccabile se decide di non far nulla, e comunque e sempre potentissima quando invece attacca con le misure cautelari a disposizione delle procure i bersagli che troppo spesso casualmente inquadra nel mirino». Più alla portata, dunque, resta invece la grande partita dei “ristori” solo promessi: servirebbero a evitare il collasso del sistema, già lesionato in modo spaventoso dal fallimento inesoraabile di mezzo milione di imprese, per lo più commerciali.

Finalmente indennizzi veri, dopo la farsa recitata per un anno da Giuseppe Conte: è questo il principale “miracolo” che, secondo Sergio Luciano, è lecito attendersi da Mario Draghi. Il neo-premier non ha «muscoli politici» per chissà quale riforma, da attuare «nel breve volgere degli undici mesi che lo dividono dalla scadenza delle elezioni presidenziali o, al più tardi, nei ventiquattro mesi che mancano al termine naturale della legislatura». Semmai, l’ex presidente della Bce «non è solito sparare colpi a salve». E’ un personaggio che, «se agisce, lo fa sapendo di poter vincere». Potrebbe quindi riuscire a «rasentare il potere taumaturgico manifestato con il celeberrimo “whatever it takes”, che salvò l’Italia con tutto l’euro» intervenendo soprattutto sul fronte socio-economico, cioè «sulla pratica bollente dei ristori inefficienti (o peggio, millantati) lasciati dal governo Conte-2, come una bomba a orologeria nell’ufficio, giusto sotto la poltrona da premier».

Per la precisione: il decreto 176 del 18 dicembre 2020, il cosiddetto “decreto ristori”, per funzionare prevedeva l’emanazione di 21 decreti attuativi. Quanti ne sono stati emessi? Appena 7. Quindi, ne mancano 14. «Il che evidentemente rende quantomeno zoppo, se non vano, l’intero articolato». Ma questo è niente, scrive Luciano sul “Sussidiario”. Secondo un’opportuna riclassificazione dei dati ufficiali del governo fatta da “La Stampa”, la bomba a orologeria che il Conte-bis ha lasciato a Draghi sotto la scrivania è di ben 539 decreti attuativi, sui 792 previsti dall’intera batteria dei Dpcm con cui ha cercato di governare “l’avvocato del popolo”. «Chiaro? Significa che gli uffici sono stati in grado di emanare poco più di un quarto dei decreti attuativi che sarebbero stati necessari». Ora, aggiunge Luciano, il semi-miracolo laico che gli italiani hanno ragione di attendersi da Draghi è questo: «Prosciugare l’infame arretrato di questi decreti e attuativi. E comunque, con o senza decreti, far arrivare i soldi alle vittime economiche della pandemia».

Indennizzi da far pervenire non solo ai cassintegrati, che sia pure con ritardi notevoli, soprattutto iniziali, l’Inps è riuscito più o meno a pagare. In ballo ci sono «anche e soprattutto gli autonomi, lavoratori singoli e imprenditori, che hanno perso mesi e mesi di fatturato (e ancora ne stanno perdendo) ma non hanno per questo potuto estinguere tutti i costi e sono restati senza reddito». Non confondiamo i livelli, raccomanda Luciano: la riforma della burocrazia richiestaci dall’Europa («e affidata da Draghi, quasi provocatoriamente, all’ottimo Brunetta»), di fatto «non si farà mai», finché non interverrà «qualche causa esterna dal potere devastante, vedi alla voce “Grecia”». Non dimentichiamoci, aggiunge l’analista, che il nostro «è un paese che ha digerito senza scomporsi l’ignominia della non-licenziabilità individuale degli statali quando il Jobs Act di Renzi ha fatto saltare il tabù dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che dava la stessa garanzia ai dipendenti privati».

Non è giusto, né costituzionale, il fatto che siano state create «due categorie di lavoratori così diverse, rispetto a un diritto così sacro come quello del lavoro». Eppure «lo abbiamo accettato senza batter ciglio». Questo, continua Luciano, è un paese dove il neoministro della funzione pubblica, che aveva già ricoperto lo stesso incarico nell’ultimo governo Berlusconi, «ha dovuto subire attacchi e offese di ogni tipo per aver in quelle vesti tentato di introdurre nella pubblica amministrazione prassi del tutto ordinarie, nel mondo privato». Luciano ricorda infatti che Brunetta aveva proposto i famosi tornelli all’ingresso, osando anche «stringere i bulloni sulle assenze per malattia», “scoprendo” il lassismo «che impera quasi ovunque, in Italia», dove «due giorni di malattia molti medici di base non li negano a nessuno». Aggiunge l’analista: «Per una riforma della pubblica amministrazione efficace – che dovrebbe essere metaforicamente sanguinosa – si dovrebbero avere le spalle larghe abbastanza da sostenere le proteste lobbistiche e di piazza di tre milioni di ipergarantiti».

Per non parlare della riforma della giustizia civile, «zavorrata da tre milioni e mezzo di cause arretrate e dall’indifferenza della casta che dovrebbe smaltirle, la magistratura», che Luciano definisce «impunita e impunibile quando sbaglia per dolo, comunque intoccabile negli automatismi di carriera quando sbaglia per incompetenza o inadeguatezza professionale», in ogni caso «intoccabile se decide di non far nulla, e comunque e sempre potentissima quando invece attacca con le misure cautelari a disposizione delle procure i bersagli che troppo spesso casualmente inquadra nel mirino». Più alla portata, dunque, resta invece la grande partita dei “ristori” solo promessi: servirebbero a evitare il collasso del sistema, già lesionato in modo spaventoso dal fallimento insoraabile di mezzo milione di imprese, per lo più commerciali.


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